TESTO DI BARBARA TEDDE
Viaggiare è libertà. Quando poi lo spirito è quello di andare alla scoperta di qualcosa di nuovo, con mezzi promiscui e senza troppe organizzazioni sulle tappe, diventa un’avventura emozionante, dove gli imprevisti fanno parte del viaggio e giocando a perdersi sai che avrai sempre qualcosa da raccontare.
E così mi sono persa nel rum, quasi in tutti i sensi, viaggiando con la fantasia dal divano del mio salotto, sorseggiando (con parsimonia) la bottiglia galeotta e ispiratrice sul mobile bar accanto alla finestra. Proviene dalla Repubblica Dominicana ed è prodotto con metodo solera: un bland di rum invecchiati 12 anni in botti di rovere ex-bourbon ed ha un colore ambrato, un olfatto vanigliato di zucchero caramellato, frutta secca tostata, cocco ed una leggera speziatura da legno. In bocca è più presente la boiserie, poi il marzapane e note di arancia rossa che si fondono col cocco e lo zucchero caramellato. Come non pensare a viaggi esotici… E’ un rum distillato da melassa, (una sorta di sciroppo ottenuto dalla spremitura della canna una volta estratto lo zucchero) e non un agricole (ovvero distillato dal succo della canna da zucchero), che mi fa ricordare anni passati quando ero solita degustare un bicchiere di rum con una fetta di arancia cosparsa di polvere di caffè e zucchero di canna, i quali, doverosamente flambati, si caramellavano e diventavano un morso croccante e delizioso, accompagnato dal sorso di rum; un abbinamento semplice e, sì, anche molto vintage. Una sciccheria in confronto alle lontane origini: sembra infatti che, migliaia di anni fa, esistesse già un distillato di canna da zucchero in Nepal, Cina e in India, il cui gusto non era così accattivante, al contrario, era sgradevole, duro e irruento, tanto che, allo scopo di renderlo bevibile, richiedeva aggiunte di tè, cannella e succo di limone. Un classico.
Fu Cristoforo Colombo, nelle sue scorribande avanti e indietro da un continente all’altro, che portò la canna da zucchero sulle isole Caraibiche, dove la pianta trovò un terroir ideale; successivamente gli schiavi, per sopravvivenza, iniziarono a distillare la melassa, ovvero la bollitura di ciò che rimaneva dopo l’estrazione dello zucchero dalla canna. E rum-ba fu.
Sulle origini del termine rum ci sono diverse teorie, ma la più accreditabile è al dialettale rumbullon (o rumbuillon), ovvero bolgia, confusione, probabilmente un gergo usato sulle navi dai bucanieri per i comportamenti rissosi dei marinai, dovuti all’attingere esagerato da quei barili carichi di acquavite e destinati alla maturazione e all’imbottigliamento nel Vecchio Continente. Navi intrise di sudore e di alcol per conquistare il conquistabile, in quelle isole dove il potere colonialista diventò in pochi anni arrogante e incontrollabile, così da mettere fine alle idee pacifiste di Colombo, il quale morì povero e dimenticato da tutti. La pirateria, nel Seicento, divenne protagonista nei mari Caraibici, ed il leggendario Pirata Morgan (Sir Henry Morgan, gallese) ne fu il protagonista: dopo aver avuto un ruolo di rilievo nel “Progetto Occidente” – la conquista delle isole caraibiche, appetibili per le miniere di argento – si era dato un gran da fare a depauperare olandesi e spagnoli disertando gli ordini Reali inglesi; spregiudicato, disobbediente, stratega e sanguinario. Un personaggio fuori dagli schemi, ispiratore per Salgari (ne “Il Corsaro Nero”), da cui ne derivarono film, fumetti, opere letterarie, evocatore di nomi d’arte come per Marco Castoldi (il cantante milanese Morgan) ed il calciatore Francesco Morini (giocatore della Nazionale negli anni Settanta, chiamato così per l’abilità a depredare il pallone agli avversari). Per Sir Henry Morgan la Giamaica fu l’ultima spiaggia della quale diventò Governatore. Ma la sua carriera politica durò poco, il suo animo corrotto e dannato non si addiceva a ruoli politici e, forse, anche l’uso di rum – e chissà cos’altro – non lo aiutò a tenere a freno il suo temperamento. Morì di cirrosi epatica nell’agosto del 1688 a Port Royal (Giamaica), dove fu sepolto con funerali in pompa magna.
Il rum Capitain Morgan, in suo onore, non poteva mancare: un distillato di melassa dal color ambrato che nasce in Giamaica nel 1944, adesso in mano ad una multinazionale. Poco a che vedere con il gusto attuale, poiché arricchito di spezie e di erbe (una ricetta ancora segreta), che conferiscono un sapore vanigliato e dolce, un gusto piacione ma di gran successo nell’America del dopoguerra.
La storia cambia ed insieme a lei i gusti. Il rum si affina, si veste elegante, se ne scrivono libri, dividendo il pubblico in sofisticati puristi per i rum agricole e in epicurei con i rum di melassa. Perfetto ingrediente anche per la miscelazione, così che Hamingway (famoso estimatore di cocktail, distillati e vino) ne parla ne “il vecchio e il mare” citando il daiquiri ed il mojito. Due cocktail (di origine cubana, ma eseguiti sotto suggerimento americano, pare) che richiamano spiagge bianche con palme riverse ed un mare bianco-celeste-azzurro. Il daiquiri è rum bianco, succo di lime e zucchero di canna, da bersi anche in versione frozen (ovvero con una base di ghiaccio tritato finemente) e con aggiunta di frutta come fragola o banana. Con il terzo giro di daiquiri si può davvero perdere la rotta, ma si può anche ritrovare la strada giusta, se bevuto con parsimonia; sarà il gusto fresco che ripulisce la mente, il sapore acidulo che scuote, quel gusto leggermente dolciastro che lo rende goloso, il daiquiri è disinibitorio e buonissimo, bevuto soprattutto nelle serate estive e mai in solitaria. Il Mojito è un ever green: lime pestato con zucchero di canna, aggiunta di ghiaccio spaccato con le mani, ovviamente aiutate dal pestello, una gettata di rum bianco (a me piace con qualche goccia di bitter o angostura), menta schiaffeggiata con le dita e acqua gassata. Dissetante, inebriante, fermarsi al primo non è possibile; si può reggere fino al quarto giro, meglio se il clima è caldo, ma poi stopparsi e fare una pausa.
E a proposito di Cuba, come non citare il Cuba Libre, che nel Padrino parte II ha un ruolo di rilievo nella scena in cui il fratello di Michel Corleone chiede: “vuoi bere un Cuba Libre?”, una frase che ha sollevato polemiche, considerandolo un anacronistico errore (eppure, sembra che esistesse già nei primi del Novecento… ma era rum, acqua e caramello, che niente aveva a che fare con la Coca-cola). In realtà l’epoca dell’invenzione vede origini controverse, ma la ricetta vuole mezzo lime spremuto in un bicchiere da long drink, ghiaccio fino all’orlo, 5 cl di rum bianco, 12 cl di coca cola e fetta di limone o lime a guarnire.
Di cocktail ne sono passati sotto i ponti ed il rum da dissennatore di ciurme è diventato oggetto di disamine di appassionati e attenti degustatori; ne sono stati scritti libri ed il suo commercio è planetario, così come la sua storia che si estende fino al Giappone (con Nikka, Ryoma fino al sofisticato Nine Leaves) ed alla Thailandia (Sang Som, Issan Rhum), dove nacque già venti secoli prima di quello caraibico.
Sposto il dito sul mappamondo, sempre dal mio divano, che si ferma ad Haiti, seconda terra sulla quale poggiò il piede Cristoforo Colombo, dopo Guahanani (El Salvador), convinto di essere giunto su qualche isola del Giappone. Haiti, un paradiso terrestre, un popolo mite – quello creolo – che da quel giorno però non ebbe più pace. Una terra con una storia complicata, originariamente colonia francese, poi colpi di scena, governi europei, americani, dittature, rivolte, eventi di sangue e terremoti. Una storia che si accanisce su quelle spiagge bianchissime, mare cristallino e paesaggi da sogno, ma la canna da zucchero non si piega, rimanendo una grande risorsa economica, da dove il rhum ne esce sempre vincitore. Qui c’è Clarins, rhum agricole da monocultivar: biologico, non ibridato e privo di chimica aggiunta, né per la coltivazione delle canne né per la fermentazione totalmente spontanea; distillazioni arcaiche, nessuna filtrazione, raccolta manuale e trasporto solo tramite animali, il tutto coronato da un imbottigliamento obbligatoriamente autoctono. Un procedimento che ne fa un rhum ancestrale (adoro questo termine) e che raggiunge un pubblico di amanti del rhum più di nicchia, perché meno lavorato e sicuramente dal carattere più forte e non ruffiano, senza posporre l’eleganza, acquistabile ad un prezzo non proprio economico.
Trinidad&Tobago, terzo viaggio di Colombo ed ex colonia inglese. I Caroni: scoperto per caso un dismesso zuccherificio e distilleria di proprietà statale a Trinidad ed abbandonato nei primi anni Settanta; qui vengono trovati nel 2004 centinaia di barili di rum, il più anziano risalente al 1974. Un ventennio di rum, tutti eccellenti e sorprendentemente diversi, divisi in 35 tipologie, dai 50 agli oltre 70 gradi per alcolometria. Sono rum con particolari sentori che spaziano dal petrolio alla paraffina, per poi presentarsi al palato con vari frutti tropicali e speziature. Per veri appassionati e con prezzi importanti, a causa della scarsa reperibilità del prodotto.
Martinica (Antille francesl), quarto viaggio di Colombo. Martinica significa “isola dei Fiori”: prima colonia francese, poi inglese, poi nuovamente tornata alla Francia. Martinica è meta turistica, una buona economia, ma, per chi ama il mare, penso sia più appropriata la nostra Costa Smeralda. Per i francesi è rhum con l’acca, e Neisson (monsier Neisson…) ha una produzione agricole con canne non ibride, tutte di proprietà, ed è l’ultimo master distiller presente sull’isola. Produce con AOC (Appelation d’Origine Controlée), perché i francesi sono riusciti a disciplinare anche l’indisciplinato rhum. Una fermentazione della canna per più di 72 ore consente di sviluppare una grande complessità aromatica, esaltata dalla distillazione, che avviene in una colonna di rame Savalle del 1938. Una lavorazione artigianale e la cura in ogni dettaglio conferiscono una bassa gradazione alcolica ma una grande struttura gusto olfattiva. Per gli amanti ed i palati raffinati, appartenente ad una fascia di prezzo medio-alta.
Spostiamoci in terra ferma ed andiamo in Guatemala. Una terra ballerina, di origine vulcanica e dai colori vivaci, ravvivata da paesi e città di una bellezza disarmante. Una ex colonia spagnola, dove la famiglia Botran produce un rom agricole invecchiato con metodo solera in botti di rovere che ospitavano bourbon, charry e porto. Lorena Vazquez (Signora master blander, una delle poche al mondo) continua la tradizione dando spazio a maggior morbidezza. Sempre con metodo solera, troviamo il famoso Zapaca, uno dei più venduti al mondo. Una produzione, quella di Botran, per gli amanti di una elegante morbidezza, ottimo anche per miscelazioni di mani sapienti.
Da ricordare anche alcuni dei più venduti al mondo, che rimangono Brugal, Matusalem ed El Dorado (quest’ultimo un po’ più caro), che mantengono una buona fascia di prezzo, pur essendo di ottima qualità.
Bianchi o scuri? Agricole o tradizionali? A voi la scelta. Attenzione a non farsi ingannare dai colori: il rum molto scuro non è sinonimo di invecchiamento, ma solo di aggiunta di molto caramello e pertanto può rivelare un gusto da edulcolorante.
Inzuppateci un sigaro, gustatelo con la cioccolata, fatene una Pina Colada, un Jamaican Mule, un Mai Tai, o affidatevi ad un barman fantasioso che vi farà volare ai Caraibi riempiendo un bicchiere, perché il rum di regole ne ha sempre avute davvero poche. E se non possiamo volare su spiagge bianche e mari caldi, la sorpresa di un sorso può aiutare a viaggiare anche senza permessi o passaporti.
Una ricetta per un Mojito atipico, più elegante, forse per un pubblico più adulto, è quella ideata nel 2004 da una bartender conosciuta in tutto il mondo, Audrey Saunders, la titolare del Pegu Club di New York. L’Odl Cuban è assolutamente delizioso, un drink non impegnativo e facile da farsi anche a casa.
OLD CUBAN
Ghiaccio
45 ml di rum invecchiato
22,5 ml di succo di lime
30 ml di sciroppo di zucchero
4 gocce di bitter angostura
5 foglie di menta fresca
60 ml di champagne (non usare il prosecco poiché troppo fruttato e sovrasterebbe il gusto degli altri ingredienti, ma un buon metodo classico anche italiano va benissimo)
Shakerare tutti gli ingredienti, escluso il vino, e filtrarli (anche con un colino se non avete un Double Strain) versandoli su una coppa Marie Antoinette o coppa Martini ampia. Aggiungere lo champagne – on the top – e decorare con un rametto di menta ed una fetta di lime.
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