Si era sentito liberato nella sua vita recente nel momento in cui aveva deciso di scordarsi dell’automobile in città: il merito era dell’assoluta incapacità di muoversi a Firenze, a causa di lavori per la tramvia, che facevano vivere ogni giorno una situazione disperata ma non seria. Era rimasto affascinato un giorno quando si trovò in mezzo all’ingorgo in piazza Stazione, credeva di essere in un film, con i vigili sconsolati a braccia aperte di fronte agli automobilisti , i guidatori di autobus e i taxi che facevano scendere i passeggeri, i visi delle persone paonazzi dalla rabbia, e lui tranquillo che se la filava a piedi tra le macchine. In fondo, pensò, era semplice sopravvivere, bastava un ricambio nella borsa e poi, quella necessità assoluta del mezzo a 4 ruote scompariva. Aveva ritrovato il gusto di svegliarsi presto al mattino, complice il tempo più lungo che necessitava per andare a lavoro, ma era anche per quello che aveva deciso di scegliere uno studio nella zona di Arcetri, vicino al viale dei Colli ma lontano dalla pazza folla. La scarpinata era lunga e, volendo, anche dura, ma non ci avrebbe certo rinunciato. Spesso allungava il percorso passando da San Niccolò e lì aveva fatto amicizia con un falegname: persona squisita, sulle mani il segno del lavoro, ma una grande cultura fatta di vita vissuta e di letture personali. Rifletteva che questi incontri, quando era sempre chiuso in auto, non sarebbe riuscito a farli, e si compiaceva di poter camminare con agilità: aveva smesso anche di disprezzare la pioggia!. Le prime volte era un saluto, poi una domanda su un armadio in vetrina, quindi il racconto di quando si era trasferito da giovane in un quartiere fatto di artigiani e trasformato oggi nel supermarket del cibo. . Non aveva più bisogno di lavorare, lo faceva per trasferire il proprio sapere al figlio e al nipote, che avevano deciso di seguire la sua professione, dopo aver tentato di lavorare in posti da impiegato, senza trovare ma la soddisfazione che lui trasmetteva solo a guardarlo. Fu così che iniziò ogni giorno a fermarsi a salutarlo, e una volta il caffè, la volta dopo l’aperitivo, alla fine si decise ad invitarlo a pranzo. Dovette fissare per tempo, la moglie del falegname lo aspettava a pranzo ogni giorno, e per non lasciarla sola la convinse a invitare la sorella. Fu così che scese dal suo ufficio in Arcetri molto presto e alle dodici era già fuori della bottega ad aspettare. Erano anni che non andava a mangiare a quell’ora ma si adeguò agli orari dell’artigiano. Raggiunsero a piedi la trattoria in Santo Spirito, una maniera per ascoltare ancora parole belle, fatte di amore per il legno, sensazioni che poteva dare il profumo emanato dai mobili, ma anche politica e situazione sociale, un punto di vista di una persona che ne aveva viste tante ma che era ancora protagonista della vita. Si misero a tavola in un locale che non conosceva, grande ma ancora con poca gente seduta. Lo colpì come l’uomo trattava il pane, con rispetto ma anche con desiderio “Per chi ha passato la guerra, ogni cibo è importante!”, poi ordinarono: aringhe e ceci, ribollita, inzimino di seppie e stufato del “signor Pelliccia”. “Perché si chiama così?” chiese all’uomo che già sorrideva quando iniziò la domanda: “Molte patate e poco ciccia, quando la carne era un alimento prezioso!” spiegò. Arrivò la bottiglia di vino, i calici non c’erano ma quel vino gli sembrò caldo e avvincente come non mai.
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