Joan Mirò nasce a Barcellona nel 1893, inizia a disegnare fin da piccolo, ma studia economia per volere della famiglia che lo avvia alla professione di contabile. A 18 anni, però, un esaurimento nervoso lo porta a seguire la sua vera passione: l’arte, potrà così frequentare l’Accademia di Belle Arti ed altri istituti. Nel 1920, a 27 anni, si trasferisce a Parigi dove frequenta circoli Dada, conosce Tzara e Picasso, inizia sperimentazioni cubiste e fauve. Si sposerà poi con Pilar ed avrà una figlia. È considerato a ragione un esponente di spicco del Surrealismo per la tecnica del disegno automatico e la pittura onirica, ma tutto ciò che sembra astratto, in Mirò ha un fondamento concreto, spesso ispirato dalle cose semplici, come una patata che pare Eluard scambiò per un disco solare. “Lavoro come un giardiniere, in uno stato di passione e di eccitamento. Io penso al mio studio come a un orto: qui ci sono i carciofi, laggiù le patate. Le foglie devono essere tagliate in modo che le verdure possano crescere. Ogni cosa ha bisogno di tempo. Devi fare degli innesti, devi innaffiare. Le cose maturano nel mio animo“, scriveva l’artista.
Genio caleidoscopico ed itinerante, come Persefone l’artista catalano si muove fra la luce ed il buio, trascorrendo l’estate nella terra natia e l’inverno a Parigi, fino all’arrivo della guerra civile spagnola e poi dell’occupazione nazista in Francia. Mirò continua la sua ricerca della libertà, espressiva e sociale, sperimenta materiali e colori, crea ceramiche, scenografie, collages, arazzi. Dalla metà degli anni ’50 si ritira nella sua casa-studio a Palma di Maiorca, terra d’origine della moglie e territorio ancora molto legato all’artigianato tradizionale. Morirà nel 1983, a 90 anni, aveva lavorato fino a due anni prima.
Nel 1939, Mirò in fuga dalla guerra, si ritira in Normandia, a Varengeville-sur-Mer (dove aveva una casa anche Braque). Qui, nel gennaio del 1940, ha inizio la serie delle Costellazioni: 23 tempere su carta di piccole dimensioni dove pittogrammi e linee fluttuanti si combinano per creare infinite note musicali. L’opera Figure di notte guidate da tracce fosforescenti di lumache – conservata al Philadelphia Museum of Art – presenta uno sfondo blu, come ad alludere all’ambientazione notturna. Ricordi di quando il padre mostrava col telescopio al piccolo Joan la meraviglia del firmamento. Scelse piccoli fogli di carta e colori ad acqua e benzina, come se tutti e quattro gli elementi risuonassero in una melodia: il mare, le lumache che strisciano sinuose a terra, la fresca brezza marina che sale su, fino alla luna, ed il fuoco che infiamma l’animo dell’uomo. Nel maggio del 1940 anche la Normandia sarà bombardata: “Credevo che la vittoria dei nazisti fosse inevitabile (…) ed ebbi l’idea di esprimere quest’angoscia tracciando segni e forme sulla sabbia, in modo che le onde li trascinassero via istantaneamente o creando sagome e arabeschi nell’aria come fumo di sigaretta, che poi sarebbero saliti in alto avrebbero accarezzato le stelle”. Raymond Queneau suggerì di creare un dizionario per lo studio delle opere di Mirò e di quelli che definisce “miroglifici”, segni che si ripetono nelle composizioni pittoriche, combinandosi in un linguaggio poetico. Becchi di uccelli, grandi bocche aperte dati denti aguzzi, strani pesci, più si osserva l’opera più vediamo emergere delle forme, non è un caso che molti abbiano paragonato il suo stile a quello di un bambino, non si vuole banalizzare l’artista, ma sottolinearne la spontaneità e la freschezza, quello che spesso dimentichiamo nell’avvicinarci all’arte, ma che i più piccoli sanno ricordarci. Jacques Prévert lo definì “un innocente col sorriso sulle labbra che passeggia nel giardino dei suoi sogni” e così mi piace immaginarlo.
Nel 1961 Mirò, quasi 70enne, dipinge tre grandi tele ad olio dal titolo Blue I, II, III (oggi al Centre Pompidou), un trittico come summa della sua arte e del suo amore per il colore. Guardando in particolare Blue II notiamo come le forme giocose che popolavano altre opere scompaiano, come se dopo tanti cinguettii e ghirigoghi si facesse silenzio. Rosso e nero emergono da un fondo blu che ci calma, una linea attira la nostra attenzione, dei punti ci lasciano in un equilibrio sospeso. Il blu, colore della spiritualità, del mare, del cielo, ci fa galleggiare in un sogno. Una semplicità ottenuta attraverso una continua semplificazione che va verso la concentrazione dei significati per “cogliere il movimento dell’immobilità, l’infinito nel finito”…
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