Quando d’un tratto hai voglia di un Trebbiano d’Abruzzo e non ti accontenti di comprarlo in una delle tante enoteche romane.
Ed è così che un martedì mattina freddo ma soleggiato salgo in macchina e oriento la bussola di Google maps in direzione sud est (da quando vivo a Roma il mio navigatore è ormai inservibile, posseduto da un demone sadico che si diverte a farmi girare a vuoto sul grande raccordo anulare, presente la canzone di Venditti?).
Mi dirigo verso una cantina abruzzese che conosco solo di nome; ma tempo un km e arriva improvviso il cambiamento di idea e di coordinate: oggi si va a Santo Stefano di Sessanio!


Da tempo mi incuriosiva questo luogo di montagna ai piedi del Gran Sasso, oggetto di studi e di esposizione mediatica da ormai un quindicennio, set a cielo aperto di fiction e di documentari, ma non ero mai riuscita a visitarlo. Quindi la cantina e il ricreativo li metto da parte per il futuro e decido per il culturale escursionistico.
Difficile non aver mai sentito parlare della creatura dell’imprenditore italo-svedese Daniele Kihlgren, che alla fine degli anni Novanta, girovagando in moto per queste montagne, cede all’incantesimo di un borgo medioevale fortificato, arroccato a spirale verso la sua torre antica e decide di farne il suo progetto primario: riportare allo splendore originario questo nucleo di bellezza arcaica e pressoché intatta, senza stravolgere né tantomeno edificare nulla. Un pugno di anime ed una sola attività commerciale, una rivendita di beni di prima necessità. L’emigrazione massiccia nel corso del Novecento, soprattutto verso il Canada, non ha visto ritorni da queste isolatissime parti e il tessuto sociale si è sfilacciato fino a quasi dissolversi.


Eppure questo piccolo nucleo di case ha conosciuto nei secoli passati una sua particolarissima fioritura. La baronia di Santo Stefano passò nel 1579 dai Piccolomini ai Medici di Firenze, che fecero di Santo Stefano un importante centro di produzione e lavorazione della lana scura prodotta dalle pecore locali. Veniva impiegata per splendidi manufatti artigianali, come le sovraccoperte che adesso si è tornati a produrre, ma soprattutto per le tonache dei monaci e le divise dei soldati. I pigmenti per colorarla erano ovviamente naturali; nota di colore, in più di un senso: dalle uve di Montepulciano si ricavava la cosiddetta “tinta allegra”, nome che più azzeccato non si può. Telai, strumenti, manodopera, scambi commerciali, transumanza: un circuito virtuoso che generò stabilità sociale e relativo benessere. Situazione che si protrasse fino alla metà dell’Ottocento, quando col declino della pratica della transumanza le greggi cessarono di essere una risorsa preziosa. L’Unità di Italia poi lasciò questa località ai margini dei transiti commerciali e la via dell’emigrazione fu l’unica percorribile per il sostentamento. Gli uomini partirono tutti e a casa restarono solo le donne, i bambini e gli anziani.


Proprio l’inesorabile spopolamento, di per sé desolante, ha protetto però questo posto fatato dall’orrenda frenesia edilizia degli anni del boom economico, elemento di devastazione territoriale su larga scala, con sfregi che ancora non si cancellano.
Daniele quindi ha cominciato a comprare le case del borgo, proprietà spesso appartenenti a più eredi, di cui la maggior parte ancora all’estero. Terminato il complicatissimo puzzle ereditario-notarile, sono partiti i lavori di restauro, con una filosofia di ristrutturazione che è andata oltre il concetto di conservativo e che è più corretto definire maniacalmente filologica. Ha dato vita, credo tra i primissimi in Italia agli inizi del novo millennio, a un’idea di ospitalità diffusa (il nome è Sextantio), con gli alloggi sparsi nei vari angoli del villaggio, idem per gli spazi comuni, come la reception, che ingloba una bellissima grotta in cui è conservato un antico telaio, la taverna, dove si servono vini e assaggi di prodotti locali e la locanda, con i piatti antichi recuperati dai racconti delle anziane del paese (in realtà, come da tradizione, si serve il piatto, non i piatti: un’unica portata che contiene tutto quello che la stagione ha da offrire).


La mattina in cui sono arrivata ho trovato neve fresca, un cielo di smalto lucido e decorazioni natalizie di sobria bellezza. Inoltrandomi tra le serpentine dei vicoli e dei passaggi porticati, osservando i dettagli dei portoni, delle finestre in pietra con i riquadri fioriti, le altane dei palazzi signorili, ho cominciato a sospettare una molto probabile origine fiorentina dietro questi particolari architettonici. Finché, prima di averne conferma dalla gentilissima Donatella del Sextantio, che poi mi ha raccontato con grande passione e competenza l’affascinante storia di Santo Stefano, mi sono imbattuta nella piazza principale, guarda caso detta Medicea, dove troneggia uno stemma che a noi fiorentini risulta decisamente familiare.


Arrivo davanti alla piccola casa in pietra che ospita la reception, dove vengo accolta da Matteo, a cui subito chiedo lumi sui gioielli tradizionali conservati in una teca davanti al bancone del check-in. Il tipico ornamento femminile abruzzese è la Presentosa, un ciondolo tondeggiante che ricorda una stella a molte punte, con al centro due cuori e un simbolo aggiuntivo scelto dalla fanciulla committente. Poi vari amuleti, come rami di corallo, la falce di luna crescente, oppure sirene e altre creature antropomorfe; ricorre il rospo, benaugurale per la sua capacità di rigenerarsi. Gli uomini appuntano al bavero della casacca una catenella terminante con uno di questi simboli e un ciuffo di crine di tasso, la Tasciòla.


La bellezza monacale delle camere è assoluta. È stato conservato il pavimento in pietra originario, le pareti, pur sanificate, sono state trattate con colori a calce, i letti in legno, come gli altri pochissimi pezzi di arredo (un baule, un piccolissimo tavolo, una sedia, una barra per appendere gli abiti), sono stati oggetto di una meticolosa ricerca tra case private e rigattieri. I materassi sono in lana, esattamente come erano un tempo e le coperte a tinte vivaci, meravigliose, sono tessute a mano su antichi telai recuperati. Il lusso è già presente in questa essenzialità degli arredi, antesignani del design più intelligente nel loro essere funzionali e curati esteticamente.

Ma è presente anche un lusso più tangibile, seppur sempre molto sobrio e lo si trova nell’angolo dedicato al bagno, separato da un tramezzo dalla zona letto. Vasche free standing di linea impeccabile, materiali opachi e satinati, non scintilla nulla qui. Specchi incorniciati da assi di legno recuperato, vecchie scale a pioli per appendere la biancheria da bagno, saponi vegetali dal profumo di prato. E candele color crema, grandi, nelle nicchie scavate nelle pareti, accanto a libri e giocattoli antichi. Interruttori d’antan col filo di seta a vista. La tecnologia necessaria c’è ma non si vede: il riscaldamento è a pavimento, un lavoro certosino di tubi che devono superare dislivelli per nulla contemporanei, ma che rende confortevoli in modo omogeneo queste camere che sarebbero altrimenti delle vere celle frigorifere.


Con Donatella mi affaccio sull’altana che domina la piazza Medicea: una loggia attraversata dai raggi del sole pomeridiano, con all’orizzonte le montagne innevate del massiccio del Sirente e sotto di noi la porta di accesso al borgo e la piazzetta, bianca di neve anche quella. E gatti, una colonia di gatti per nulla timidi e molto socievoli.


Torniamo giù e ci dirigiamo verso la taverna, il Cantinone: e qui il mio accantonato desiderio di Trebbiano d’Abruzzo ha trovato soddisfazione imprevista, oltretutto nella situazione più bella che potessi immaginare. Un’enorme stanza con le pareti in pietra annerite dal fumo di un grande focolare, in fondo alla sala, affiancato da nicchie con tante candele accese. Profumo di legna che brucia, di freddo e di neve. Musica classica a basso volume in sottofondo, Bach. Sono la prima e unica ospite per ora e non potrei chiedere di meglio.
Qui e ora siamo in provincia dell’Aquila, ma si respira qualcosa di impalpabile e universale, una sensazione che ho provato in un modo così nitido in pochi altri luoghi e sempre senza troppa gente intorno. E penso ai ciondoli portafortuna che ho visto prima, che parlano di concetti semplici e ancestrali condivisi a tutte le latitudini.


Fine della divagazione introspettivo-antropologica e ritorno alla sana concretezza, cioè al motore iniziale della mia piccola fuga infrasettimanale, il Trebbiano d’Abruzzo. Qui al Cantinone ho trovato i vini della famiglia Pasquale, proprietari della cantina Praesidium di Prezza (AQ). Sei ettari di vigne certificate biologiche, con intorno la bellezza delle montagne abruzzesi: il Gran Sasso, la Maiella, il Sirente; siamo nella parte ovest della Valle Peligna, a 400 mt di altitudine. Terreno di argille rosse e scheletro silicio-calcareo, escursioni termiche molto marcate e ventilazione costante, rese molto basse per ottenere vini fedeli alla terra, con fermentazioni spontanee, nessuna filtrazione, lunghi affinamenti in botti di rovere per il Montepulciano, in acciaio e in bottiglia per il Trebbiano ed il Cerasuolo.


Sul lungo tavolo davanti al focolare una grande candela illumina la bottiglia e il calice in cui è stato versato il Bianco Terre Aquilane Lucì 2018: solo Trebbiano d’Abruzzo da poco meno di un ettaro di vigna, la 2018 è la seconda annata prodotta. Una notte a contatto con le bucce, fermentazione in acciaio con lieviti indigeni, sosta sur lies di dieci mesi, un travaso e poi il riposo in bottiglia per altri dodici mesi. Parlo con Ottaviano Pasquale al telefono rientrando a Roma e mi dice che l’annata che ho assaggiato, seppur fredda, grazie alle rese bassissime ha garantito maturazione ottimale e sostanza. E in effetti il vino è per struttura quasi un rosso sotto mentite spoglie: il colore, splendido, è un giallo dorato intenso con dei riflessi brillanti (va detto che l’atmosfera del luogo di degustazione e il riverbero delle candele hanno reso le sfumature nel bicchiere un capolavoro di cromatismi). I profumi ricordano fiori di campo, ciuffi di paglia riscaldati dal sole, piccole mele selvatiche, mandorle; il gusto è pieno, polposo, l’acidità è ottimamente integrata e accompagnata da una lunga vague minerale e sapida.

Insomma, il Trebbiano d’Abruzzo che avevo voglia di assaggiare, proprio lui. Mi concedo tutto il tempo possibile per degustarlo, mentre intanto è arrivata una giovane coppia di ospiti spagnoli, completamente rapiti dal contesto. Come me. Non immaginavo, infatti, che il vino dei miei estemporanei desideri l’avrei degustato in un posto così, talmente coinvolgente che fatico a trovare definizioni che evitino la trappola del lezioso. Facendola semplice, (che è sempre la via migliore) si è trattato del vino giusto nel posto giusto.
Faccio un brindisi mentale, una mia personale, piccola cerimonia laica che ringrazia le deviazioni di percorso, i cambi di programma, l’inatteso.

Categories:

I commenti sono chiusi