L’immagine non è delle più accattivanti, lo ammetto, parlando di cibo: vedere una bocca sporca di sangue non dispone al consumo lieve e gaudente, piuttosto impone riflessione, motivazioni interiori, voglia di scandagliare il mistero, e questo è accaduto da sempre.
L’utilizzo del sangue in cucina può nascere da varie motivazioni: il rispetto dell’animale, per il quale si impiegano tutte le sue parti a scopo alimentare. Un’idea di sacralità, legata ad un elemento che nell’immaginario di un lontano passato era la linfa vitale ed il poterlo mangiare serviva per trasferire il valore ed il coraggio dell’animale ucciso. Poi c’è l’aspetto gustativo, che divide nettamente i consumatori tra detrattori e sostenitori.
Nella selvaggina il sangue viene utilizzato per fare marinate, per cuocere in umido e il fondo dolciastro che rilascia serve a creare un bilanciamento con spezie ed erbe aromatiche . Molto diffuso è il sangue che entra nella composizione di salumi, come il buristo e il migliaccio, e poi esiste una ricetta completamente dedicata: i roventini, ovvero sorta di crêpes preparate con farina e strutto che serve per cuocerli, completati con pecorino grattugiato .
Parlare di sangue oggi è argomento sgradito, più volte si è cercato di eliminarlo definitivamente dalle ricette tradizionali, sembra quasi che la sua presenza sia lì a ricordare che quando mangiamo carne un animale è stato ucciso. Ma è necessario averlo in mente, per attuare un consumo responsabile ,non svagato e poco attento degli animali: tanto per ricordarsi che il prosciutto non è entrato nelle vaschette da solo ma un maiale è stato ucciso per farlo.
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