Mi affascinò a suo tempo l’opera di Anish Kapoor al Castello di Ama, a Gaiole in Chianti, vista di notte nella cappella, trasformata apposta per l’occasione. E capì come questo artista a me sconosciuto avesse delle visioni molto seducenti. Un racconto breve su due opere e la sua azione.
TESTO DI ELISA MARTELLI
Anish Kapoor nasce a Bombay nel 1954 da padre indiano e madre ebrea irachena. Studia arte a Londra e presto si distingue per i suoi lavori che oscillano fra bi- e tridimensionalità per indagare la dialettica fra gli opposti: luce/buio, fuori/dentro, materiale/immateriale, uomo/donna. Caratteristico l’uso dei colori in purezza, sintesi fra Oriente ed Occidente. Dagli anni ’90 realizza sculture monumentali, con forme che sembrano provenire da un altro mondo per stimolare nuove visioni.
Nel 2001 colpisce l’opera Taratantara installata in piazza del Plebiscito a Napoli. Tonnellate di tubi innocenti combinati in un sistema di ponteggi “layher” sostengono un telo in pvc lungo 50 mt ed alto 35 mt alle due estremità. “I wanted to turn the building inside out […] Because of the way the form narrows, there is foreshortening of the space. The building from the outside appears to be half as long as it really is. Entering the interior is like going to the Grand Canyon. The space expands. There is a sense of the outside being smaller than the inside”, scrive l’artista in merito all’opera, originariamente realizzata per il Baltic Museum di Newcastle, al tempo in via di ricostruzione. A Napoli però l’opera non è collocata all’interno di un edificio demolito, ma all’aperto, sull’asse fra il Palazzo Reale e la Basilica S. Francesco di Paola, città in cui Kapoor dice di sentirsi a casa, ritrovando in una qualche misura la colorata e festosa atmosfera di Mumbai. Questa grande opera tridimensionale ricorda un ponte, un tunnel, un gigante papillon rosso o due trombe, considerando che il titolo taratantara rimanda al suono onomatopeico di una tromba da fanfara. Il pigmento rosso puro evoca molteplici significati: la lava del Vesuvio, la passione, il sangue, il sole al tramonto, ma anche l’interno del nostro corpo versus l’esterno. Questa grande membrana tesa, infatti, cambia il rapporto dentro/fuori, passando sotto l’opera lo spazio si dilata, sembra più ampio di quello che percepiamo dall’esterno, a causa della rastremazione centrale. E il proto-colore rosso dona vita a quella che è una forma astratta.
Più intima l’opera realizzata nel 2004 per la cappella del Castello di Ama: Aima consiste in un cerchio luminoso posto al centro del pavimento. Nel buio della cappellina i nostri occhi si abituano a questa luce che fa pensare ad un pozzo, ad un fuoco liquido, ma la parola “aima” in greco significa “sangue” ed il fatto che l’opera si collochi in un luogo sacro la collega inevitabilmente al sangue di Cristo, resosi vino in una sorta di transustanziazione al contrario, che rimanda all’azienda vinicola stessa. L’opera è site specific, composta specificatamente per quel luogo, il Castello di Ama integrato nella tradizione vinicola e paesaggistica del Chianti che si vuole qui confrontare con il tempo e con la storia ed il futuro dell’arte, in un dialogo già iniziato con opere di artisti quali Pistoletto e Buren.
Quello che mi colpisce di Kapoor è la sua capacità di collocarsi nel qui ed ora, rimandando ad un altrove misterioso, a volte metafisico, in ogni caso affascinante. La grandezza non sta necessariamente nell’imponenza delle installazioni, ma nel riuscire ad andare oltre una storia particolare per parlare di temi profondi ed universali in cui ciascuno di noi ritrova qualcosa di sé.
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