La scelta di Alberto Giacometti di scolpire con forme diverse ha creato uno stile immediatamente riconoscibile. Personaggio diverso dai suo contemporanei artisti, mi ha sempre affascinato anche per la sua figura ieratica

TESTO DI ELISA MARTELLI

«Sorride. E tutta la pelle grinzosa del suo viso si mette a ridere. In uno strano modo. Non solo gli occhi ridono, ma anche la fronte. Tutta la sua persona ha il colore grigio del suo atelier. Per simpatia, forse, ha preso il colore della polvere», così lo descrive il suo modello preferito, Jean Genet. Alberto Giacometti nasce in Svizzera (Borgonovo) nel 1901 dove frequenta l’École des Beaux-Arts e l’École des Arts et Metiers di Ginevra. Suo padre è pittore, amico di Segantini, la famiglia incoraggia il talento del giovane che a 18 anni visita Venezia restando affascinato da Tintoretto, altri viaggi in Italia lo fanno innamorare di Giotto e dell’arte del passato. Nel 1922 si sposta a Parigi dove segue i corsi di scultura di A. Bourdelle per poi aprire un suo studio di scultura dove esegue opere ispirate al primitivismo, al cubismo e al surrealismo.

Inquieto, iracondo, solitario, irriverente, Giacometti raggiunge il successo a Parigi a partire dagli anni ’30. Maturata l’idea che non si possano rappresentare le cose come si vedono, il lavoro dell’artista è una scoperta continua. La sua perenne insoddisfazione gli farebbe continuare un’opera all’infinito, come nel caso del ritratto di James Lord – su cui si basa il bel film “Final Portrait” – che doveva richiedere un pomeriggio, ma che si protrasse per ben 18 sedute.

La Mano GiacomettiLa mano (1947) è una scultura ispirata dalla macabra visione di un braccio staccato dal corpo visto durante la sua fuga da Parigi nel 1940. Dopo la guerra, infatti, inizia la creazione di sculture con figure esili, allungate che diventano la sua cifra stilistica. Qui ci si limita ad un braccio allungato con una mano aperta, forse in una richiesta di aiuto. «Tutta l’arte del passato, di tutte le epoche e di tutte le civiltà compare davanti a me, tutto è simultaneo come se il tempo prendesse il posto dello spazio», dichiara l’artista, come in un continuum fra l’arte etrusca o le tavolette votive di civiltà lontane e la scultura contemporanea. La sua ansia vitale lo fa scavare tra immagini rituali millenarie, restituendoci figure fragili, ma eterne, con una forza ancestrale.

la foresta Giacometti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo la guerra e le sue atrocità, la sua inumanità, Giacometti ripensa l’umanità. Nell’opera La foresta (sette figure, una testa) del 1950 le figure sono scarnite, ieratiche, guardano in avanti silenziose. Le loro superfici irregolari, quasi screpolate tradiscono l’amore e la cura maniacale con cui sono state modellate e rimodellate, forse ritratti del fratello Diego, della moglie Annette, della sua amante, di qualche prostituta. Le figure si slanciano verso l’alto, verso il cielo, come alberi spogli nei boschi del cantone dei Grigioni e della val Bregaglia in cui l’artista è nato.

“Le sue opere sono una mediazione continua tra il nulla e l’essere”, dice Sartre, così come la sua incapacità di staccarsi dall’opera non fosse quella di staccarsi dalla vita stessa, che lascerà nel 1966 a sessantacinque anni.

Categories:

I commenti sono chiusi